Le professioni più richieste tra dieci e vent’anni (inchiesta sul lavoro del futuro – MediaBlogLab51)

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Inizia la nostra inchiesta sul lavoro del futuro con una raccolta di articoli, post e approfondimenti sul tema. La raccolta parte con un interessante articolo pubblicato da Panorama della giornalista Anna Maria Angelone. 

Redazione MediaBlog LAB51

La classifica dei 50 lavori più richiesti nel futuro dell’America vede al primo posto l’infermiera. Una professione non nuova, è certo. Ma in realtà l’intero settore della cura alla persona è atteso come uno dei due volani occupazionali da qui a 20 anni. Non solo per l’invecchiamento della popolazione (fattore comune a tutti i paesi industrializzati, con un’aspettativa media di vita che sfiorerà gli 85 anni nel 2040), ma per altri solidi motivi: il sostegno al settore assicurativo per l’assistenza sanitaria e gli investimenti nella ricerca scientifica, dai farmaci ai macchinari, dalla robotica alla biotecnologia. Da qui, insomma, verranno fuori molti mestieri nuovi di zecca.

Nell’ambito dei servizi sociali, per esempio, si svilupperanno gli«home carer», ovvero chi assisterà i più maturi a casa; gli «experimental therapist», che proporranno trattamenti alternativi ai pazienti; e il «memory augmentation surgeon», il medico che aiuterà gli anziani a conservare la memoria. Altre opportunità verranno da nanotecnologie e biotecnologie. Come il«body part maker», che produrrà in laboratorio membra o tessuti per ricostruire il corpo umano; o il «nano-medico», che creerà microimpianti di monitoraggio della salute o automedicazione dei malati. E ancora il «bioinformationist», lo scienziato che combinerà la genetica con lo sviluppo di medicinali e terapie cliniche; o il «geomicrobiologist», che studierà come i microrganismi possono dare nuovi farmaci o combattere l’inquinamento.

Le proiezioni americane, aggiornate ogni biennio, seguono una metodologia che incrocia istruzione, formazione, esperienza professionale e aree economiche, assumendo un mercato in equilibrio, e si sono rivelate affidabili nel tempo (in assenza di recessioni o shock imprevisti). Perciò è la fonte più usata per la programmazione a livello nazionale: dai politici per decidere quali misure di stimolo varare, dalle agenzie di collocamento per la formazione, dalle università per adeguare l’offerta con nuovi corsi e, infine, dalle famiglie e dai figli per scegliere il lavoro. Perché, e qui sta la prima grande differenza fra Usa ed Europa, il lavoro in America è vissuto in termini di competitività: la carenza di certe figure professionali rischia di far perdere il treno della crescita. Tant’è vero che, quando mancano competenze, come sta accadendo oggi per l’uscita dal mercato dei baby boomer arrivati alla pensione, si importano dall’estero. Come nelle intenzioni della riforma sull’immigrazione appena messa a punto dal presidente Barack Obama.

Più in generale, gli Usa prevedono una sorta di separazione delle competenze, che saranno o molto alte o molto basse. Scompare, insomma, il lavoratore medio. Mentre fra i lavori in forte crescita ci sono gli autisti, i giardinieri, i riparatori di biciclette, gli idraulici, come ha ricordato il sindaco di New York, Michael Bloomberg, invitando gli americani a riconsiderare queste professioni. Fra i lavori tradizionali, tuttavia, ci sarà posto anche per evoluzioni più avanzate: per esempio, il «compcierge», cioè il portiere d’albergo addestrato per guasti a computer e informatica, o il«broadband architect», un elettricista del futuro capace di organizzare i contenuti interattivi di internet sulle tv in casa.

L’altro grande motore di lavoro negli Stati Uniti continuerà a essere l’alta innovazione. «Questo è ancora il paese tecnologicamente più avanzato» conferma Gaetano Pellicano, advisor dell’ambasciata Usa e responsabile del programma Fulbright-Best per i giovani italiani nella Silicon Valley. «I cluster più grandi come la Silicon Valley, il Texas, il North Carolina si rafforzeranno e saranno una calamita per molti lavoratori. Ma anche una fucina di nuovi mestieri. Senza contare l’effetto moltiplicatore: per ogni lavoro nuovo creato da Google ce ne sono almeno cinque creati in altri settori».

Nell’ambito della realtà aumentata, avanza il «digital architect», evoluzione dell’odierno architetto che disegnerà edifici virtuali. In ascesa anche gli esperti delle stampanti 3D, che utilizzano materiali plastici sparati dal laser per costruire oggetti a piacimento. Ian Pearson, futurologo inglese e autore del libroYou tomorrow, vede un potenziale altissimo in questo settore.

Alcune tendenze americane si ritrovano anche nel Vecchio continente. Come conferma il commissario europeo all’Occupazione, László Andor: «La crescita di posti di lavoro si concentrerà in tre aree chiave: l’economia verde, i servizi sanitari, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Secondo le nostre previsioni, il potenziale è enorme. Ma sarà fondamentale investire nell’istruzione e nella formazione». Bruxelles ha presentato un pacchetto per sostenere le prospettive occupazionali del futuro, stimando che solo i «green job» creerebbero oltre 20 milioni di posti di lavoro già dal 2020. Quali nuovi mestieri si profilano?

In ambito energetico, ormai indispensabile è l’«energy manager», che dovrà tagliare i consumi di edifici pubblici, privati e aziende. Fra le figure emergenti, spiccano il manager delle stazioni di rifornimento d’idrogeno e il riciclatore di uranio (per convertire quello usato a fini militari in materiale per le centrali nucleari). Contro l’esplosione delle emissioni nocive si svilupperanno il «traceability manager», che studierà l’intera catena dei fornitori per evitare di comprare prodotti troppo inquinanti, o il «cloud controller», per verificare la capacità di riflettere le radiazioni solari delle nuvole sopra le nostre teste. E, ancora, il riciclatore tecnologico, per smaltire o riciclare la tecnologia in disuso.

Uno studio del governo britannico, FastFuture, prevede fra i 20 nuovi mestieri del 2030 l’«agricoltore verticale», che curerà coltivazioni su edifici a più piani in città per ridurre lo sfruttamento del suolo; o il«broker del tempo», che si occuperà di come pagare le persone con il tempo invece dei soldi. E il «personal brander», una specie di consulente per costruire e gestire noi stessi come un marchio di qualità, anche attraverso i social media. Senza contare l’esplosione dei mestieri intorno a internet (ben 21 i profili «digitali»).

Quanto alle competenze, anche se qualcuno ipotizza la stessa tendenza americana, prevale la convinzione che nel mercato europeo ci sarà piuttosto un graduale spostamento verso l’alto: in pratica, tenderanno a ridursi i mestieri di basso profilo che aumenteranno di livello, come anche quelli medi o alti. Va inoltre considerato che, con la globalizzazione, prodotti e distretti industriali si sono spostati altrove e quindi serviranno più mobilità e qualifiche più trasversali. Come sottolinea Bruno Busacca, direttore della Sda Bocconi, la scuola che forma i vertici aziendali. «Come sarà il manager del futuro? Dovrà conoscere sempre meglio il business e sapere come valorizzarlo. In una parola, avere competenze sempre più trasversali, gestire anche l’interculturalità e l’intergenerazionalità della forza lavoro. Inoltre dovrà stimolare con continuità i processi di innovazione e quindi essere non solo manager, ma anche imprenditore».

in Italia? La Fondazione ItaliaOrienta ha messo insieme le previsioni disponibili da varie fonti. «Abbiamo aggregato i numeri elaborati seguendo una logica» spiega Antonio Cocozza, docente di scienze della formazione all’Università degli Studi Roma Tre e direttore scientifico della fondazione. «Separare i settori che hanno una forte tradizione in Italia, e che non spariranno, da altri più deboli. Ebbene, ingegneria, economia e statistica appaiono favorite».

Anche l’agroalimentare conoscerà una nuova primavera (nel 2012 si è registrato il 2,2 per cento di aziende nuove create da giovani sotto i 30 anni) e genererà una gamma di figure, come il personal trainer dell’orto. Ma nel boom dei mestieri della terra c’è un futuro che già s’inizia a sperimentare. Due giovani lucani, laureati in tecnologie alimentari, hanno creato la prima coltivazione di funghi recuperando i fondi del caffè; un agricoltore salentino ha inventato un metodo ecologico per estrarre la fibra di fico d’India con cui riveste complementi d’arredo di design.

Per sfruttare tutte le possibilità, tuttavia, ci sarà bisogno di una vera rivoluzione. Innanzitutto nell’istruzione. «Dobbiamo recuperare un ritardo storico» avverte Andrea Cammelli, presidente di AlmaLaurea. «Nella popolazione tra 25 e 34 anni gli Stati Uniti hanno 42 laureati su 100 e l’Italia appena 21. Nell’Unione Europea il 44 per cento dei manager ha la laurea o specializzazione superiore; in Italia solo il 15, mentre il 37 per cento ha la scuola dell’obbligo». Eppure, l’obiezione più comune è che in Italia ci siano troppi giovani laureati a spasso. Valutazione parzialmente sbagliata. «C’è un problema di scarsa trasparenza fra domanda e offerta che non s’incontrano» puntualizza Ferruccio Dardanello, presidente dell’Unioncamere. «Poi c’è una carenza di formazione, perché spesso il lavoro non è adatto al lavoratore, o viceversa. Infine c’è un fattore culturale: anni fa nessuno voleva fare il cuoco, era consierato un lavoro di “serie B”; oggi tutti vorrebbero fare lo chef».

Ma non è tutto. «Ai lavoratori fra 20-30 anni» prevede Riccardo Pietrabissa, docente di bioingegneria al Politecnico di Milano «serviranno tre “commodity” di lavoro: parlare molto bene almeno l’inglese, conoscere le nuove tecnologie e saper leggere un bilancio». Oltre a una buona preparazione generale perché, sottolinea Pietrabissa, «il mercato oggi cambia di continuo e non conta quello che sai fare, ma l’attitudine a fare un lavoro e a impararlo facilmente. Il lavoratore del 2030 dovrà capire e risolvere problemi più complessi di oggi».

Servirebbe anche altro. «L’Italia ha bisogno di un vero piano strategico a 20-50 anni» raccomanda Marco Ceresa, managing director della Randstad, società leader al mondo nella selezione delle risorse umane. «Vogliamo puntare sul turismo, sul patrimonio artistico, sul food? Allora bisogna formare persone adatte ai nuovi mestieri per essere competitivi lì. La verità è che oggi non lo sappiamo e formiamo lavoratori pensando solo ai fabbisogni immediati».

fonte:Panorama – estratto articolo di Anna Maria Angelone